lunedì 11 novembre 2013

«Che la marcia di oggi faccia salire la vostra voce in alto»


Pubblichiamo di seguito il discorso tenuto da Padre Paolo Giulietti, Vicario Generale della diocesi di Perugia, che ha portato i saluti dell'Arcivescovo, Mons. Gualtiero Bassetti (foto accanto). Ringraziamo pubblicamente il Vescovo e Padre Giulietti per le parole di incoraggiamento e il sostegno sincero alla nostra battaglia.

«Porto con piacere il saluto dell’arcivescovo mons. Bassetti, che mi ha incaricato di trasmettere a tutti voi la vicinanza sua personale e quella della Chiesa di Perugia-Città della Pieve. 
La percezione della crisi e dei drammatici effetti che ha sulle persone e sulle famiglie, soprattutto su quelle più deboli, è particolarmente viva nelle parrocchie e nei luoghi di assistenza, dove ormai da anni crescono le richieste di aiuto, anche da parte di chi, fino a pochi mesi prima, poteva godere di un’esistenza sicura. Nonostante la moltiplicazione degli sforzi e delle iniziative, quello che si può fare è assai poco, dinanzi alla crescita della disoccupazione e - ciò che è più grave – della disperazione, che si manifesta nella rassegnazione, nella rinuncia anche solo a cercare lavoro, nella disillusione verso tutte le forme di impegno sociale e politico, nel ricorso a speranza surrogate e illusorie (il gioco, la magia…)…

Non possiamo negare – l’avete scritto anche al Papa - che alle radici della crisi sta un dato non economico-politico, ma culturale: la perdita del riferimento alla centralità della persona umana e lo smarrimento di ciò che ne sostiene la dignità. Se un uomo e una donna valgono perché producono, perché consumano, perché votano… e non semplicemente perché sono persone, allora nel momento in cui altri producono, consumano e votano in modo più vantaggioso, tutto è lecito. È lecito – anzi indispensabile! - delocalizzare, è lecito tagliare i “costi” del personale, è lecito abbandonare a se stessi “i rami secchi”. Non in nome – si badi – di un bene superiore, che vada a vantaggio di tutti, ma in nome del profitto, de dio denaro, dinanzi al quale l’uomo è solo uno strumento da usare. Sappiamo che nella crisi il profitto diventa sempre più grande per un numero sempre più ristretto di privilegiati.

Dinanzi a questo scenario c’è un grande rischio – lasciatemelo dire con franchezza: quello di limitarsi a puntare il dito, protestando per i sintomi e dimenticandosi delle cause. Se a monte della crisi sta la dimenticanza della persona e della sua dignità, anche la soluzione della crisi va cercata in tale direzione, cioè nel recupero delle motivazioni e del senso di tale dignità. È giusto, certamente, chiedere di tamponare l’emergenza, ma è sbagliato non andare alla radice del problema. Su questo fronte c’è un immenso lavoro da fare, perché nella nostra società si svuotano progressivamente di significato tutta una serie di riferimenti valoriali e culturali che sono fondamentali per dire chi è la persona umana, perché la sua vita e la sua dignità sono intangibili, qual è la sua vocazione per realizzare se stessa e – infine – qual è il suo destino. Non pensate, cari amici, che la soluzione della crisi stia in qualche punto in più di PIL: usciremo dalla crisi se e solo se sapremo insieme rimettere al centro la persona e la sua dignità e attorno ad essa rimodellare il lavoro, le relazioni e l’organizzazione sociale.

Mi sembra, allora, che accanto alle giuste parole di protesta oggi si debbano dire almeno altre due parole: la prima è un “grazie” a tutti coloro che in questo tempo di crisi si stanno dando da fare – a volte in modo splendido – per sostenere la dignità delle persone. Grazie alle nostre famiglie, che portano il peso della crisi come primo grande ammortizzatore sociale; grazie al mondo del volontariato e alle caritas; grazie a tutti quelli che nel loro lavoro non si dimenticano della propria e dell’altrui dignità; grazie a chi compie piccoli e quotidiani gesti di attenzione agli altri; grazie a quelle mamme che tengono i propri figli quando tutti le spingono all’aborto; grazie a chi custodisce i propri anziani e malati con amore e rispetto per il mistero della vita; grazie a chi sa ancora sorridere, perché ha ragioni di speranza affidabili. È proprio importante dire questo grazie, perché se non ci fossero queste persone non solo staremmo tutti peggio, e perché pongono dei segni importanti – anche se piccoli – del valore di ogni persona umana, che va accolta, aiutata e amata, sempre e nonostante tutto.

L’altra parola è un “mea culpa”: non possiamo far finta di non vedere che di questa cultura egoista, individualista, menefreghista siamo – nel nostro piccolo - un po’ tutti complici. Che anche noi abbiamo girato la testa dall’altra parte; che anche noi abbiamo copiato il compito; che anche noi abbiamo chiesto qualche “favore”; che anche noi non ci siamo fatti troppe domande su troppe cose; che anche noi ci siamo accontentati - quando stavamo bene – di star bene da soli. In questo senso la crisi è per tutti – non solo per qualcuno - una grande occasione di cambiamento (noi preti diremmo “conversione”): niente potrà tornare come prima; o nascerà un modo davvero nuovo di rimettere al centro la persona – la persona di tutti, a partire dagli ultimi - nella nostra società, o andremo incontro ad un deterioramento inarrestabile della qualità della vita per grandi masse di persone, anche nelle società occidentali.
Il rischio vero di questa crisi non è quello di ritrovarsi più poveri – lo siamo stati felicemente! -, ma quello di diventare più cattivi. Questo è il saluto e l’augurio che faccio a tutti voi a nome del vescovo: che la marcia di oggi faccia salire la vostra voce in alto, a chi ha il dovere di fare qualcosa, e in profondità, dentro la coscienza e il cuore di ciascuno».



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